A 25 anni dalla sua uscita...
Critici e aficionados li attendevano al varco. Dopo l’iniziale album omonimo “The Smiths” (1984), dirompente e persuasivo come tutte le opere prime e dopo il poetico realismo del secondo “Meat is murder” (1985), evocativo, già dalla copertina, di più acuti riferimenti allo struggente panorama post punk inglese, i quattro di Manchester riposizionano chitarre e microfoni sull’opulenta scena musicale britannica. Parliamo di “The Queen is dead” terzo long playing degli Smiths, pubblicato nel 1986 ancora una volta dall’etichetta indipendente londinese Rough Trade Records. Oltre mezz’ora di musica racchiusa in dieci brani che non deludono le aspettative, anzi. Dieci preziose armonie marchiate a lettere candide e sferzanti, soavemente pronunciate sulla fronte di chi non li riteneva capaci di triplicare la posta. Un album che segna dunque non tanto la maturazione del gruppo, indefinita ed effimera categoria critica, quanto il superamento della più audace tra le sfide assegnate alle rock band: andare oltre il secondo album e fare di quantità virtù. Loro lo fanno e non a caso, “The Queen is dead” viene subito considerato quasi universalmente,tra i tre dischi pubblicati fino all’86, quello migliore, anche, pare, contro lo stesso severo giudizio dei suoi artefici. Bigmouth Strikes Again (traccia n.6) e There Is a Light That Never Goes Out (traccia n.9), pezzi più rappresentativi del lavoro, catturano magneticamente per la prima volta molti frequentatori del genere new wave a volte, prima di allora, persino ignari dell’esistenza di Morrissey, Marr, Rourke e Joyce, spesso restii alle interviste e al clamore patinato di altri gruppi a loro coevi e per questo invisi a giornalisti e sedicenti musicofili radiotelevisivi. La chitarra e il testo di “Bigmouth” (…now I know how Joan of Arc felt as the flames rose to her roman nose…) e il liberatorio sconforto di “There is a Light…” (Driving in your car, oh please don’t drop me home) rendono i brani, protagonisti assoluti della storia musicale inglese. Tutto il lavoro comunque, scorrere via rapidamente, aperto dal trionfante avvertimento dei tamburi di The Queen is Dead, brano introduttivo che da il titolo all’LP, seguito poi dalla magistrale alternanza dei classici stilemi smithiani. Si costruiscono così, struggenti liriche esistenziali (il cuore della poetica morrissiana) come I Know it’s over e Never Had No One Ever e piacevoli evasioni come Cemetry Gates e The Boy with the Thorn in His Side, incastonate tra le due canzoni manifesto sopra citate. L’album è tra l’altro sostenuto dall’ennesima “genialata” del front man Morrissey, ovvero la scelta della foto di copertina che riprende un sognante Alain Delon immortalato in tinte nero verdi in L'insoumis pellicola del lontano 1965. Anche la cover senza mai offuscare il primato delle note, contribuisce a celebrare il valore di un disco, bello sin dal primo ascolto che sarà destinato probabilmente a non restare l’ultimo.
1 commento:
adoro quell'album !!!!!!!!!!!!!
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